L'itinerario per
conquistare la vetta dell'Etna, la
maggior curiosité de la nature per gli intellettuali del '700, fu per secoli sempre lo stesso:
Da Catania si raggiungeva Nicolosi dove ci si provvedeva di guide specializzate.
La
partenza avveniva generalmente nel pomeriggio, a dorso di mulo si attraversava la zona boscosa del vulcano e, ai margini di questa, si raggiungeva la piccola
Grotta delle Capre ove si pernottava alla meno peggio, poi, verso la mezzanotte, il risveglio e la levataccia per affrontare l'ardua, gelida zona desertica del vulcano e la grande avventura.
Quando tutto andava bene, alle prime luci di un giorno sognato da sempre e che per sempre si sarebbe ricordato, si era già in cima al cratere a combattere con le più variegate emozioni dell'anima, con il sacro terrore che un luogo tanto selvaggio ispirava. Il sorgere del sole avrebbe in breve fugato ogni paura, avrebbe illuminato un
panorama sconfinato e meraviglioso e con esso ogni più recondito angolo dello spirito, avrebbe portato la meraviglia, quella
gioiosa sensazione di completezza che rende così simili agli angeli o agli dei, così vicini all'Assoluto...
Era stata conquistata la montagna sacra, il pilastro del cielo!
Fin qui l'immaginazione stimolata dalle scarse conoscenze del tempo. Solo per pochi essa si tradusse in una concreta esperienza speleologica. Se il grande antro infuocato minaccia sempre di spalancarsi al di sotto dei viaggiatori settecenteschi (e non), il rapporto che costoro ebbero con le
grotte etnee fu in fondo abbastanza limitato, spesso condizionato dal terrore che esse ispiravano e soprattutto dalla fretta, dalla mancanza di organizzazione e, in fondo, dall'assenza di un vero interesse per tale
fenomeno della natura.
Anche oggi i turisti con curiosità speleologiche sono pochi, le classiche mete della Sicilia idealizzata erano ben altre e bisognava fare presto per poterle vedere, bisognava pur scrivere nei
taccuini di viaggio io ci fui.
Così le grotte da essi frettolosamente avvicinate durante la loro marcia verso il cratere centrale furono in genere soltanto due o tre: talvolta la grotta situata ai piedi dei monti Rossi (probabilmente una grotta in frattura, oggi interrata) e la vicina
Grotta delle Palombe, quasi sempre la
Grotta delle Capre, punto di sosta obbligata.
Ciò almeno fino al
1804, quando
Mario Gemmellaro per assicurarsi una più stabile e confortevole base di osservazione nelle vicinanze del cratere centrale e per garantire un sicuro ricovero ai viaggiatori, costruì quasi a quota
3000 metri, una piccola casa, la Gratissima, tale rifugio nel
1811 sarebbe poi stato ampliato col contributo economico degli ufficiali inglesi allora stanziati in Sicilia, divenendo così la
Casa degli Inglesi.
Soltanto sporadicamente qualche viaggiatore più interessato e meno frettoloso sfuggiva al luoghi comuni del
Gran tour e si attardava a visitare durante il suo viaggio all'Etna altre grotte vulcaniche o, quantomeno, vi faceva riferimento nel suo diario.
Anche dopo la costruzione della Gratissima, essa continuò ad esercitare uno strano fascino tra i viaggiatori, quel
fort mèchant gìte, quell'
alloggio assai scadente era infatti divenuto un luogo alla moda tra gli europei colti ed avventurosi del '700, si evince che, dopo
l'eruzione del 1766, per dar loro riparo non trovando la capanna, i viaggiatori infatti vagano, non sanno dove passare la notte e Blasio è costretto a cercare una grotta non meglio identificata.
Nel
1770, con
Brydon, la Grotta delle Capre (da lui chiamata
spelonca dei Caprioli) sembra invece essere già diventata un preciso punto di riferimento, come nel '500 la
rupem di cui parla
Fazello. Il
quadro che l'inglese fornisce della grotta e della sua permanenza nella zona è
idilliaco, quasi la pagina di un romanzo, tanto perfetto che alcune delle sue osservazioni hanno più immaginario.
Nella nella loro essenzialità, le informazioni sulla grotticella fornite da
Vivant Denon risultano assai chiarificatrici, soprattutto la sua definizione di esiguo rifugio concorda con la descrizione di
Gourbillon e contrasta visibilmente col grande antro di cui parla Brydone:
Dopo aver attraversato la parte alta della foresta, lunga sette miglia, arrivammo alla grotta delle capre, formata dalla crosta di un rigonfiamento di scorie. Non bisogna che la fantasia si ecciti, ravvisandovi l'antro di Polifemo, perché non somiglia a questo, più di quanto la nostra guida non somigli ad un Ciclope. Nulla è più esiguo di questo rifugio, che può a malapena contenere sei persone. E' tanto basso da non starci in piedi.(1979: 204-205)
A sua volta
Houel arriva alla Grotta delle Capre, tre ore dopo la sua partenza da
San Nicola Vecchio ed inizia subito a disegnarla mentre i suoi quattro compagni di viaggio raccolgono legna per il fuoco.
E' ormai chiaro che la grotta in questione era ben poca cosa, un semplice riparo poco profondo di nessuna importanza speleologica, se insistiamo su di essa, se tanto spazio le abbiamo dato e continuiamo ancora a dargliene non è soltanto per motivi storici ma soprattutto affettivi, le pietre che videro per misere e polverose che siano, hanno sempre un grande fascino e, se è lecito il paragone, a egregie cose il forte animo accendono.
Molti sono gli interrogativi riguardanti questa grotticella, poche le certezze che si possono dare,
dov'era situata esattamente? Era davvero l'unica cavità a fornire riparo ai viaggiatori o vi era qualche altra grotta in zona che veniva scambiata per essa? Ed oggi,
è ancora possibile visitarla?
Tale posizione è grosso modo confermata(ma non senza qualche perplessità) da
Orazio Silvestri, uno dei
maggiori conoscitori dell'Etna del secolo passato, percorrendo la vecchia mulattiera, lo studioso si reca da
Nicolosi al cratere centrale, seguendo lo stesso itinerario che, appena un secolo prima, avevano percorso i nostri avventurosi viaggiatori stranieri. Silvestri raggiunge così a
dorso di mulo in circa
due ore e mezza la piccola Casa del Bosco (detta anche
Ferrandina perché appartenente al duca omonimo o
Casa Capriolo perché situata proprio alla base di monte Capriolo) ove effettua una sosta e narra gli eventi occorsi in tale località.
Le cose si confondono ulteriormente se seguiamo nelle sue instancabili peregrinazioni montane
Sartorius Von Waltershausen, sul quale non può certo gravare il sospetto di non conoscere l'Etna, fu proprio lui infatti, a disegnare le
prime carte geologiche del vulcano, questa volta lo studioso fa il nome della cavità e ne fornisce pure la
posizione:
A est del monte Fai confluiscono diversi corsi d'acqua a formare una fiumara più grande, che prosegue il suo corso in direzione sud e si perde sul piano dei Renazzi nella sabbia, in questa fiumara, poco lontano dal monte Fai, c'è la grotta delle Capre, nella quale precedentemente i viaggiatori erano soliti pernottare, in mancanza di rifugi migliori.
Più tardi ha preso il suo posto la
Casa della Neve, che è stata costruita su un piano di lava, accanto ad un braccio della colata del 1766. Sartorius, per dare aiuto ai viaggiatori, ha fatto riparare questa casupola nell'estate del
1842, nel frattempo, mani impavide l'hanno distrutta a tal punto da non lasciarne oggi più traccia.
L'alternarsi di alture e vallate, il bosco, la luna piena sulla nostra sinistra e sulla destra l'infuocata nuvola di fumo che si innalzava in contorte giravolte, hanno dato a questa notte una bellezza, che si può godere solo su questa montagna, e persino su di essa soltanto raramente.
Non ho mai visto la luna così chiara, le stelle così nitide come in quest'aria pura.
Alla fine del bosco si trova la cosiddetta Grotta delle Capre, si tratta di un'ampia arcata di lava sporgente, quando ho visto, l'indomani, al nostro ritorno dalla cima dell'Etna, un pastore pascolare capre e pecore vicino a questa grotta, ho pensato al pastore di capre di
Teocrito, che, nel pieno della sua felicità esclama
Etna, madre mia! Io abito nelle tue arcate, bella è la mia dimora e tutto quello che ci appare in sogno è mio! Pecore e capre, a volontà!